Devecchi racconta i suoi undici anni alla Dinamo

OLBIA. Il primo flash che gli viene in mente pensando a 11 anni fa è l'appuntamento al porto di Livorno con quello che sarebbe diventato il suo compagno delle tantissime, e finora più importanti, avventure professionali: "Se torno indietro a come tutto ha avuto inizio, ho questa immagine: io che mi ritrovo al porto di Livorno con Vanuzzo, le nostre macchine piene di bagagli e di scatoloni, la traversata insieme, tutti e due pronti per iniziare la nostra avventura a Sassari. Ci conoscevamo, avevamo giocato assieme per due anni a Milano, e ci mettemmo d'accordo per partire insieme".
Lui, il capitano Jack Devecchi aveva 21 anni. Ll'altro, l'ex capitano Manuel Vanuzzo, circa 10 di più. Per entrambi l'inizio di una straordinaria sfida professionale e un profondo legame di amicizia. Jack racconta la sua vita in biancoblu.
Cosa ti ha spinto, allora, a scegliere Sassari?
Arrivavo da Montegranaro, dove avevo un triennale. Con loro avevo fatto la promozione dalla A2 alla A1 ma non mi garantivano lo spazio in A1, quindi decisi di rimanere in Legadue e tra le varie offerte che avevo scelsi di venire a Sassari perché mi piaceva il progetto, era un progetto nuovo.
Eri poco più che ventenne, a cosa hai dovuto rinunciare?
Sono molto legato a casa mia, dove ho ancora molti amici e dove sono cresciuto fino a quando avevo 19 anni, prima di iniziare la mia carriera da professionista. Non ho mai permesso che i legami si raffreddassero per la distanza e ho sempre voluto coltivare le relazioni. Questa forse è stata la parte più difficile. Però ho ancora degli amici fantastici, che mi hanno seguito prima, negli anni a Montegranaro, e hanno sempre continuato anche da quando sono qui in Sardegna, anche se logisticamente è un po' più difficile. Però quando gioco vicino a casa vengono sempre a farmi sentire il loro affetto. E questa è la cosa più bella.
A fronte di questo cosa hai trovato in Sardegna, cosa ti ha dato quest'isola?
In Sardegna i primi anni avevo un contratto di prestito, quindi dopo la stagione potevo rientrare alla base a Montegranaro, perciò in questa situazione pensavo che prima o poi sarei rientrato. In realtà, dopo due anni c'è stata la rescissione con Montegranaro e ho firmato un pluriennale con la Dinamo. Mentalmente sono entrato nell'ordine di idee di una  maggiore certezza e stabilità, ho pensato che questa sarebbe stata la mia casa per un po' di tempo e a quel punto, in quegli anni, anche i rapporti con molti degli amici che avevo iniziato a conoscere a Sassari si sono consolidati, e me li porto avanti tutt'ora.
Il momento più bello vissuto con la Dinamo?
E' ovvio che le vittorie si vivono tutte in maniera fantastica, lo scudetto e il triplete sono stati qualcosa di meraviglioso ma la cosa che mi ha trasmesso di più a livello i emozioni è stata la vittoria della prima Coppa Italia, è stata qualcosa di davvero incredibile. Una di quelle cose che fanno dire ‘vabbè, allora una piccola parte di storia l'ho scritta anch'io, sono riuscito ad arrivare dove non tutti arrivano, a quello che è un sogno'.
Dopo aver vinto tanto e fatto esperienze importanti nelle più grandi ribalte del basket, cosa manca alla tua carriera?
Manca tanto, io ho sempre avuto il sogno dei cinque cerchi olimpici. Non ho tatuaggi e ho sempre pensato che l'unico che farei in vita mia sarebbe solo ed esclusivamente quello dei cinque cerchi olimpici. Penso che questo per ogni atleta sia un sogno, anzi un traguardo, perché un atleta non deve mai porsi dei limiti, deve sempre puntare più in alto possibile. E quello penso proprio che sia il top. Ho avuto la fortuna di fare esperienze in Eurolega ma mi sarebbe piaciuto farla più a lungo e confrontarmi ancora di più e per più anni con quella pallacanestro, che secondo me dà ancora più valore alla carriera di un giocatore rispetto all'esperienza NBA, a meno che non sia uno dei top.  Insieme a questo ovviamente la Nazionale, la maglia azzurra è un'altra cosa che manca. Quindi mi mancano tantissime cose, anzi credo che siano di più le cose che mancano di quelle che ho fatto.
Hai cambiato tanti compagni di squadra, qual è quello con cui più di altri è rimasto un legame?
Senz'altro Manuel. Con lui ho condiviso tantissimo, in tanti anni, veramente ne abbiam fatte di cotte e di crude. Penso che comunque mi abbia insegnato tanto e viceversa, nel senso che davvero abbiamo vissuto degli anni in cui eravamo a contatto quasi 24 ore su 24 e oltre che essere mio compagno di  stanza in trasferta, extrabasket ci siamo frequentati tantissimo. Poi le dinamiche e le scelte di vita differenti hanno portato a prendere strade diverse: lui ora è a Udine, per ovvii motivi  ci si frequenta di meno però quando ci si ritrova è sempre un bel momento.
Cosa pensi, oggi, del dopo-scudetto?
Il dopo scudetto è impegnativo, è stata un'annata strana ma non più di tanto, nel senso che per una società come la nostra è abbastanza normale che il peso del triplete e le luci dei riflettori addosso ci abbiano un po' accecato. Però penso che ci abbia fatto crescere anche quello. Io ho sempre detto che dall'anno della promozione allo scudetto siamo saliti sulle montagne russe, troppo in fretta. Adesso bisogna solo ritrovare un po' di stabilità, negli anni è avvenuto tutto troppo in fretta e adesso sicuramente con una programmazione e con un progetto importante, anno dopo anno, con qualche incidente di percorso, come può essere stata appunto la stagione scorsa, cresciamo sempre più solidi.
Da capitano, come vedi la squadra di quest'anno?
La squadra è atipica rispetto a quelle degli ultimi 5-6 anni della Dinamo, magari ci sono meno bollicine, è meno frizzante, ma ha sicuramente più solidità e più di sale in zucca nei giocatori. E' ovvio che non è facile trovare subito l'alchimia giusta: non è facile per chi era già qua ed era abituato  ad un altro sistema, e non è facile per chi arriva, che si deve inserire in un nuovo sistema. E non è facile per i tifosi,  perché vedono un nuovo sistema e non vedono una pallacanestro spumeggiante come si era vista negli ultimi anni. Però è una scelta che va fatta, è un progetto che va avanti e bisogna andare avanti in quello in cui si crede.
Se non fossi venuto a vivere a Sassari, dove ti sarebbe piaciuto vivere?
Ah, questa è una bella domanda… lontano dall'Italia molto probabilmente. Perché io ho sempre detto che se non avessi avuto la fortuna di fare il giocatore, se fossi stato un ventenne-venticinquenne qualsiasi, magari con difficoltà a trovare lavoro, avrei preso le valigie e sarei andato da un'altra parte del mondo, per provare a vivere una vita diversa, molto probabilmente in qualche paese del medio oriente, che mi affascina molto e dove già appena posso scappo. La mentalità e il suo popolo mi hanno sempre affascinato. Penso a una di quelle mete lì o un po' più a sud, in Malesia…
Il viaggio che non hai ancora fatto?
Sono tanti però ho un tarlo in testa, e spero di togliermelo il prima possibile: vorrei vedere il Machu Picchu, ne sono affascinato, e prima o poi ci andrò.
Come vedi il tuo futuro, tra dieci-quindici anni?
Non farò mai l'allenatore né l'arbitro. Non so, mi piacerebbe rimanere nel mondo della pallacanestro, nel mondo biancoblu… non lo so, ora voglio vivere al meglio la mia carriera, poi si vedrà.
 

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